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Benvenuti sul blog di OPO, dove troverete una raccolta completa di articoli e approfondimenti sull’antiquariato Italiano, ma anche le ultime novità su eventi, mostre e molto altro ancora.
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La Comunione di San Girolamo (aneddoto)
Il dipinto La Comunione di San Girolamo venne realizzato da Agostino Carracci per la chiesa bolognese di San Girolamo Della Certosa tra il 1592 e il 1597.Il tema, assai raro, è quello di San Girolamo che, ormai novantenne, giunto in punto di morte volle prendere l'ultima comunione circondato dai suoi discepoliDivenne ben presto opera paradigmatica della riforma carraccesca sul versante del côté classicista. Portata in Francia al tempo delle soppressioni napoleoniche, attualmente si trova presso la Pinacoteca di Bologna. Al suo posto sull’altare di S. Girolamo nella chiesa di San Girolamo Della Certosa a Bologna fu collocata una copia realizzata nel 1823 da Clemente Alberi.La tela è stata oggetto di una lunga ed encomiastica descrizione nelle Vite de' pittori, scultori et architetti moderni (1672) di Giovan Pietro Bellori, che definì il dipinto il capolavoro di Agostino Carracci.Alcuni decenni dopo la sua realizzazione, il dipinto fu al centro di un'accesa disputa tra il Domenico Zampieri detto il Domenichino e Giovanni Gaspare Lanfranco, pittori entrambi usciti dalla scuola carraccesca.A Domenichino venne assegnata la realizzazione di una tela per la chiesa romana di San Girolamo alla Carità, dedicata allo stesso soggetto del capolavoro di Agostino. Il dipinto, commissionato dalla Congregazione di S. Girolamo della Carità per l'omonima chiesa in via Giulia a Roma, fu eseguito dal Domenichino tra il 1611 e il 1614 ed ha con la tela carraccesca indubbie ed ampie similitudini.La Comunione di San Girolamo costituisce il primo riconoscimento di rilievo ottenuto a Roma da Domenichino e suscitò, tranne rare eccezioni, i consensi entusiastici dei contemporanei, che lo considerarono tra i capolavori dell'arte italiana.Qualche anno dopo la realizzazione del quadro, quando il Domenichino e il Lanfranco si trovarono in competizione per importanti commissioni romane, l'ultimo accusò apertamente il primo di plagio, proprio per aver copiato la Comunione di san Girolamo di Agostino Carracci.Per provare le sue accuse, il Lanfranco fece incidere il dipinto di Agostino dal suo allievo François Perrier in modo tale che anche a Roma (dove evidentemente l'opera non era nota essendo la stessa a Bologna) tutti potessero rendersi conto del plagio del Domenichino.L'episodio non danneggiò particolarmente la fama del pittore bolognese, come comprova il giudizio del Bellori che “assolse” il Domenichino dall'accusa di essere un plagiatore e giudicò la sua Comunione come una «lodevole imitatione» di quella di Agostino Carracci.https://oldpaintingsonline.com/prodotto/la-comunione-di-san-girolamo/
Il micromosaico
“Un uomo che non sia stato in Italia, sarà sempre cosciente della propria inferiorità, per non avere visto quello che un uomo dovrebbe vedere”. Samuel JohnsonIl micromosaico consacra il suo successo internazionale durante il Grand Tour, per soddisfare le raffinate esigenze di turisti stranieri in visita nella magnifica Italia.Il Grand Tour: questo periodo storico, artistico e letterario che inizia nel XVIII secolo e invade il XIX secolo; la moda del classicismo e le nuove scoperte archeologiche non possono che attirare intellettuali e curiosi nella terra della romanità.Per venire incontro alle esigenze di questo particolare pubblico, desideroso di portare in patria un ricordo dei luoghi visitati, si sviluppa a Roma, tra la seconda metà del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, la tecnica del micromosaico.A Roma, nel 1727, viene istituito lo Studio Vaticano del Mosaico con un gran numero di mosaicisti alle dipendenze della Reverenda Fabbrica di San Pietro.Proprio dai mosaicisti dei laboratori dello Studio Vaticano vennero realizzati degli splendidi gioielli in micromosaico, orecchini, spille, bracciali.Nel micromosaico romano, le piccole tessere di vetro vengono accostate e fissate assieme con del mastice su una superficie di vetro o pietra per riprodurre un disegno tracciato sulla base precedentemente. I soggetti tipici di questo tipo di mosaico sono le rovine romane, scene mitologiche e religiose e riproduzioni di antichi mosaici, come quelli Capitolini.La produzione in micromosaico oggi nota costituisce un patrimonio di inestimabile valore che ha tutte le caratteristiche per essere valorizzato nel contesto dell'insegnamento superiore, come già accade per altre espressioni delle arti decorative.
Annibale Carracci
Annibale Carracci fu giudicato da molti contemporanei e dalla maggioranza dei critici e filologi successivi come uno dei più grandi innovatori della pittura.Visse nella stessa epoca di Caravaggio, anch’egli paradossalmente visto in una chiave analoga, ma più nella veste di evasore che di innovatore. In questa singolare differenza risiede parte dello straordinario interesse che la figura di Annibale Carracci ha sempre destato nella storiografia. Malgrado la sua fama enorme, è notevole osservare come molti siano i punti controversi relativi alla sua arte.Il primo luogo non è chiara la cronologia esatta di alcune opere cruciali, poco e mal documentate. In secondo luogo permane incerta l’interpretazione di capolavori decisivi, primi fra tutti gli affreschi della Galleria di palazzo Farnese a Roma, di cui, al di là della classica lettura che ne diedero gli storici seicenteschi, non sono ancora ben chiari il significato profondo e i tempi di lavorazione.Malgrado questo è evidente che Annibale Carracci ebbe una posizione di assoluto spicco nella storia della pittura tra Cinquecento e Seicento, e anche il suo rapporto con Caravaggio resta uno degli aspetti più interessanti del panorama artistico dell’epoca.Annibale Carracci fu visto dagli storici tra Seicento e Settecento come il nuovo Raffaello. Tra gli innumerevoli esempi, basti ricordare una frase emblematica dell’importante erudito perugino Luigi Pellegrino Scaramuccia che, nel noto trattato Le Finezze de’ pennelli italiani (edito nel 1674) scrive, descrivendo una ricognizione di esperti nelle vie di Roma: “S’abbatterono alla fine nelle famosa, non meno che ammirabile, Galleria dipinta a fresco, quale per sempre a onta dell’Invidia sarà eternamente apprezzata per un singolar portento del pennello del grand’Annibale Carracci, poiché il disegno in essa in compagnia d’un perfetto clorito, eccellentemente trionfa, e gli artefici, le Maestrie, e le vaghe Inventioni vie sempre per quelle pareti, per meraviglia d’ogni ingegno, ad ogn’hora risplendono”. E questo sarebbe accaduto “ doppo il Sole del nostro Raffaello”.Nella lettura di Scaramuccia sono già consolidati alcuni concetti che accompagneranno sempre, fin nei nostri tempi, la lettura di Annibale Carracci, tra cui evidentissima l’idea della conciliazione del colorito con il disegno, attribuendosi il dominio del colore alla scuola padana culminata nel Correggio e il disegno nella scuola romana culminata appunto in Raffaello.https://oldpaintingsonline.com/prodotto/madonna-con-bambino-ovale/Testo tratto da Annibale Carracci, Claudio Strinati, Art Dossier
L’icona russa
L’icona russa, ormai da duemila anni, costituisce l’immagine che la chiesa ha fornito al culto dei credenti come luogo della presenza di Dio. La venerazione del religioso non si rivolge però all’immagine rappresentata, bensì a qualcosa di più profondo ed astratto, in altre parole a colui che in essa è rappresentato. Questo è il motivo principale per cui le fattezze dei soggetti rappresentati non sono realistiche come quelle di un ritratto.Dice Sergij Bulgakov nel suo testo Ortodossia: "L’icona è una necessità essenziale per il culto… è infatti il luogo di presenza di grazia, come un’apparizione di Cristo. Si prega davanti all’icona di Cristo come davanti a Cristo stesso…L’esigenza di avere con sé e davanti a sé l’icona proviene dalla concretezza del sentimento religioso, che non si accontenta della sola contemplazione spirituale, ma cerca una vicinanza diretta sensibile, com’è naturale per l’uomo composto d’anima e di corpo…La venerazione delle sante icone si fonda quindi non solo sul contenuto stesso delle persone o degli avvenimenti in essi raffigurati, ma sulla fede in questa beata presenza, che è data dalla fede in forza del rito di benedizione dell’icona. Mediante la benedizione avviene nell’icona di Cristo un misterioso incontro fra colui che prega e Cristo stesso…”.Le icone più antiche risalgono probabilmente alla prima metà del IV secolo, quando il cristianesimo aveva già raggiunto una certa maturità. Secondo i Padri esse avrebbero potuto fornire un valido aiuto al consolidamento della fede.La tecnica usata per l’esecuzione dalle prime icone è quella dell’encausto -tecnica già nota agli egiziani- che consisteva nell’applicazione a caldo su supporto asciutto di colori impastati con cera.A partire dal IX secolo, dopo il periodo di repressione religiosa rappresentato dall’iconoclastia, prese avvio a Costantinopoli, città prescelta dagli imperatori come loro sede, un periodo di splendore per tutte le produzioni artistiche, da quelle architettoniche (furono edificate più di cento chiese) a quelle delle icone.Nel XII secolo l’icona subì l’influenza della produzione artistica costituita dai mosaici. Da essi in particolare fu ripreso il portamento delle figure, poste sempre frontalmente, e l’espressione semplice e severa dei volte.Un altro periodo, oltre a quello delle lotte iconoclastiche, in cui la produzione delle immagini sacre fu soggetta ad una battuta d’arresto, fu quello delle crociate (XIII secolo), durante le quali la città di Costantinopoli fu ferocemente saccheggiata. Come conseguenza di questi tragici eventi , i più importanti artisti che risiedevano nelle città furono costretti a fuggire e a trasferirsi in città limitrofe, come Macedonia, Candia, Cipro: nonostante ciò essi continuarono a lavorare mantenendosi sempre fedeli alla tradizione bizantina.Nel corso dei secoli successivi, l’icona torna ad essere una delle forme più rappresentative dell’arte, e le raffigurazioni diventano più delicate, raffinate e permeate da una maggiore umanità (XIV secolo), oltre che più complesse, con l’inserimento di paesaggi ed architetture che fungono da cornice per la figura umana (XV secolo).La definitiva crisi della fede ortodossa dell’impero bizantino si ebbe nel 1453 quando gli ottomani conquistarono Costantinopoli. La produzione iconografica si spostò allora verso la Grecia, le isole del Mediterraneo e i Balcani, oltre che la Russia.Le icone le mettevano sulle porte delle città, in casa al posto d’onore, le portavano nei campi di battaglia ed erano il simbolo più importante delle processioni. In sostanza erano presenze benefiche delle vita umana: nascono icone che proteggono le partorienti, davano conforto agli ammalati, vegliavano i moribondi, seguivano il defunto nella tomba, in attesa del Giudizio.https://oldpaintingsonline.com/prodotto/cristo-tra-i-santi/
Francesco Curradi
Francesco Curradi, col Rosselli, il Passignano e Jacopo Empoli, è considerato uno dei protagonisti del rinnovamento della pittura fiorentina della prima metà del Seicento.La formazione del Curradi ha luogo presso la bottega fiorentina di Giovanni Battista Naldini, artista raffinato ed eclettico, superato dal discepolo, il quale aveva preso le mosse per un aggiornamento morfologico e concettuale dal Cigoli, dal Ciapelli e dal Passignano.Infatti, quando nel suo linguaggio il Curradi appare svincolato dai limiti sentimentali e religiosi della Riforma Cattolica, rivela (come nel caso in esame) sottigliezza psicologica ed estrema qualità pittorica.In tal senso va rilevato che il quadro in esame doveva rispondere a varie esigenze devozionali.Infatti San Sebastiano, santo militare, è oggetto di culto da parte dei soldati, ma soprattutto, delle compagini di arcieri e balestrieri.Per tanto, non a caso, ho richiamato la tipologia della piccola freccia, tinta di rosso, in uso presso i balestrieri, in quanto la “testa” del santo doveva far parte del corredo votivo di un alabardiere.Com’è noto il Curradi ebbe tra i suoi allievi Cesare Dandini (che assumerà un ruolo significativo all’interno della compagine matura dei pittori fiorentini del Seicento), il quale sarà sovente adibito a modello, per le sue raffinate fattezze, quali, a mio avviso, sono state conferite al santo in oggetto.Il “corpus” delle opere del Curradi è distribuito in molte chiese e raccolte del contado toscano e umbro.Le sue prerogative gli valgono, pertanto, un gran numero di commissioni, nonché, nel 1590, l’iscrizione all’Accademia di Disegno.Valdi confronti collegano la bella tela in esame con altre (o i relativi dettagli) già note, tra le quali menziono l’Annunciazione, Firenze, collezione privata; la Madonna con Bambino e Santi, Firenze, Chiesa di santa Trinità; l’Arcangelo Michele, già New York, collezione privata. Testo tratto dall’expertise del dipinto San Sebastiano, Francesco Curradi, olio su tela, 42x32 cm, del professor Maurizio Marini (Roma) https://oldpaintingsonline.com/prodotto/francesco-curradi/
L’arte del vetro di Murano
L’arte del vetro di MuranoIl vetro veneziano ha avuto origine più di mille anni fa ed ha sempre riscontrato l’interesse di un pubblico vastissimo. E’stato infatti oggetto di esportazioni verso l’Occidente e l’Oriente fin dagli antichi ed è stato molto privilegiato dall’interesse di studiosi e collezionisti di tutto il mondo in quanto è il più antico esempio di vetro artistico in Europa.L’interesse per i vetri antichi, negli ultimi anni, si è completato con una ricerca sempre più attenta di vetri del Novecento, secolo molto creativo e dinamico a Venezia e, soprattutto, a Murano.Importanti vetrerie hanno contraddistinto la produzione di vetro artistico del Novecento: Salviati & C., gli Artisti Barovier, la Compagnia di Venezia e Murano, che poi alla fine del XIX secolo sono diventati F.lli Toso e Testolini.Diversi sono gli artisti che si sono affiancati nelle fornaci con i maestri vetrai per dar luce alle loro opere interamente in vetro.Si tratta di esemplari unici e irripetibili, creati con giochi di trasparenze, di luci e di colori.Ha favorire la crescita dell’interesse per l'arte dei vetri di Murano è complice l’importanza delle famose esposizioni alle quali hanno partecipato grandi artisti come Le Biennali Internazionali di Venezia e le Triennali Milanesi.Alcuni fra i nomi più celebri degli artisti del vetro del Novecento sono: Lino Tagliapietra, Laura de Santillana, Afra e Tobia Scarpa, Loredano Rosin, Horst Sobotta, Marco Zanini, Renato Guttuso, Fulvio Bianconi, Mary Ann “Toots” Zinsky, Renzo Ferro, Vittorio Ferro, Renzo Pavanello, Toni Zuccheri, Archimede Seguso…e molti altri.https://oldpaintingsonline.com/categoria-prodotto/vetri-veneziani/
Juliette Récamier 170 anni dalla morte
Julie Bernard nacque il 3 dicembre 1777 a Lione, precisamente in rue de la Cage, dove crebbe in una famiglia borghese. Il padre, Jean Bernard, fu un notaio reale. Per lavoro si trasferì a Parigi nel 1786 e divenne amministratore delle Poste. Fu arrestato sotto il Consulat come sospettato di cospirazioni antimonarchiche, venne scarcerato ma non mantenne l’incarico.Julie, ospitata in pensione a Lione al Convento della Déserte, non raggiunse i suoi genitori che nel 1787. Il 24 aprile 1793, a 15 anni sposò a Parigi un amico di suo padre, Jacques-Rose Récamier, ricco banchiere di origine lionese, andato anch’egli a Parigi poco prima ella Rivoluzione. Juliette intrecciò con il marito una relazione affettuosa e platonica, verosimilmente come una figlia naturale.A partire dal 1797, Juliette Récamier, 19 anni, cominciò la sua vita mondana, intrattenendo salotti che divennero ben presto appuntamenti di una società ben scelta. La bellezza e lo charme della padrona di casa, una delle “Tre Grazie” del Direttorio, insieme a Joséphine de Beauharnais e a Madame Tallien, suscitò una folla di ammiratori. La villa di via Mont-Blanc, acquistata nel 1798 e fastosamente decorata dall’architetto Louis-Martin Berthault, aggiunse ottima reputazione ai suoi salotti. E’ stata una delle prime amanti dell’arte ad arredare in stile « etrusco » e ad abbigliarsi « alla greca». L'influenza di Madame Récamier è importantissima nella diffusione del gusto dell’Antico, che poi prevalse durante il periodo Impero. La villa Récamier acquisì una nomea tale che divenne rapidamente una delle curiosità parigine che tutti i provinciali e gli stranieri si annotavano di visitare nella capitale. L'anno 1800 segnò l’apice del successo economico di Jacques Récamier: divenne direttore della Banca di Francia.Ma i potenti non ci misero molto a considerare la posizione mondana e sociale della signora Récamier. Amica di Madame de Staël, Juliette divenne una figura chiave dell’opposizione al regime di Napoleone. I suoi salotti, che innegabilmente giocavano un ruolo chiave nella vita politica e culturale dell’epoca, vennero proibiti con un ordine ufficiale di Bonaparte. Madame de Staël, Adrien de Montmorency, entrambe vicine a Juliette e presenze assidue nel suo salone, furono esiliate da Parigi; quando Napoleone divenne imperatore, Juliette rifuitò in quattro riprese il ruolo di dama d’onore di corte. Le difficoltà della Banca Récamier, a partire dal 1805, obbligarono la coppia a vendere la villa di via Mont-Blanc. A queste sventure se ne aggiunsero altre nella vita di Juliette: la morte della madre nel 1807, l’appassionata storia d’amore e la sua rottura con il principe Auguste di Prussia incontrato durante un soggiorno al castello di Coppet nei pressi di Ginevra ospite di Madame de Staël. Sfavorevole a Napoleone, Madame Récamier non tardò a subire la stessa sorte di Madame de Staël, e dovette allontanarsi da Parigi per ordine della polizia imperiale.Dopo aver soggiornato qualche tempo a Châlons-sur-Marne con Marie Joséphine Cyvoct, nipote di suo marito, orfano e diventata sua filia adottiva, Juliette ritornò a Lione, dove ritrovò l’amico Camille Jordan, che conosceva dal 1797 e che gli presentò Ballanche. Parti nel marzo 1813 per l’Italia. A Roma, ricostruì a poco a poco la sua vita da salonnère; a quell’epoca il famoso scultore Canova le fece ben due busti. Invitata a Napoli nel 1813 dal re Murat e dalla regina Carolina, venne a conoscenza nell’aprile del 1814 dell’abdicazione di Napoleone.Ritornò a Parigi nel giugno del 1814, dopo un esilio di ben tre anni, e ritrovò tutti i suoi vecchi amici, allontanati come lei, così come Benjamin Constant, ex amante di Madame de Staël. Juliette riprese i suoi incontri mondani, ricevendo le personalità più importanti francesi e straniere, senza discriminazioni di opinioni politiche: la regola imponeva che nei suoi salotti ci fosse neutralità politica. Il suo salotto prese sempre più un’inclinazione letteraria. L’incontro con Chateaubriand nel 1817 fu determinante. Il poeta fu uno degli ospiti più assidui al suo nuovo indirizzo di via d'Anjou-Saint-Honoré, rivenduto nel 1819 a seguito delle nuove sventure finanziarie di suo marito.Juliette si trasferì allora all'Abbaye-aux-Bois a Parigi, convento dove le religiose affittano i loro appartamenti alle nobili francesi. Per vent’anni i suoi salotti accolsero le menti più brillanti dell’epoca: Victor Cousin, Saint-Marc Girardin, Edgar Quinet, Tocqueville, giovani poeti come Lamartine, Sainte-Beuve, Balzac, artisti come François Gérard, Joseph Chinard, Antonio Canova, attori come Talma e Rachel, etc.Dal 1823 al 1824, un soggiorno in Italia le permise di ricreare a Roma un circolo di artisti e letterati. Tragici avvenimenti nel suo entourage famigliare contraddistinsero questo periodo: l’allontanamento dalla figlia adottiva Amélie Cyvoct, divenuta signora Charles Lenormant nel 1826, la dipartita di suo padre nel 1829, poi quella di suo marito Jacques Récamier nel 1830.A partire dal 1840, la salute di Juliette Récamier declinò e la sua vista peggiorò notevolmente. Condusse quindi una vita più ritirata anche senza rinunciare alle visite dell’amico Chateaubriand. Una delle ultime grandi serate che organizzò all'Abbaye-aux-Bois con l’aiuto dell’attrice Rachel fu organizzata per la sua carità, a favore delle vittime della grave innondazione di Lione. Divenuta pressochè cieca, Juliette dovette apprendere la morte dei suoi più cari amici: il principe Auguste Prussia nel 1843, Pierre-Simon Ballanche nel 1847 e il suo carissimo amico Chateaubriand il 4 luglio 1848.Scappata all’epidemia di colera del 1849, trovò la morte l’11 maggio 1849, all’età di 71 anni. E? sepolta al cimitero Montmartre di Parigi, dove riposa anche la famiglia, suo marito e il suo vecchio amico Pierre-Simon Ballanche.Sua nipote e figlia adottiva, Amélie Lenormant, è l’autrice di una biografia edita nel 1859 in cui pubblica una parte delle numerose lettere ricevute. Queste sono in buona parte conservate oggi nel dipartimento di manoscritti della Biblioteca Nazionale di Francia.
La Fiera della Vita
La fiera antiquaria come scuola di vita. Con i suoi treni che sovente passano una sola volta ed anche se la destinazione non è quella che sognavi spesso conviene prenderli al volo, perché il rischio è di rimanere al palo. Ti insegna poi che tutto è sostituibile, che non bisogna essere troppo fiscali perché potrebbero diventarlo anche gli altri. Ed il pugno di mosche è sempre in agguato. Che le occasioni per avere soddisfazioni potrebbero esser lì ma che bisogna saperle vedere e coglierle quando capitano. Ma anche che non è tutto oro ciò che brilla. La fiera ti insegna ancora, che il segreto della vita è il tempo. Perché il tempo è limitato. E più cose riesci a fare in quel tempo, meglio lo avrai sfruttato. La fiera ti insegna che tutto ha un costo ed un rischio. Ma che vale sempre la pena di viverla anche rischiando di cadere.Siamo tutti in fiera, quella della vita. Cerchiamo di fare del nostro meglio, sempre. Abbiamo solo da guadagnare.Claudio Valiani
Bolle di Sapone
Bolle di SaponeLa mostra mercato nazionale Assisi Antiquariato, aperta dal 25 aprile all’1 maggio, offre lo spunto per poter visitare il magnifico territorio umbro ed anche una curiosa mostra a Perugia.La vanità, intesa come elemento di instabilità, è l’insolita chiave di lettura di questa mostra che riunisce grandi artisti dal XVI al XX secolo.Bolle di Sapone. Forma dell’utopia tra vanitas, arte e scienza, a Perugia, fino al 9 giugno, raccoglie circa 60 opere legate al fil rouge di ciò che più di ogni altra cosa incanta, ma è effimero:le bolle di sapone, viste come realtà impalpabile e priva di sostanza.Sono spesso capolavori provenienti da prestigiose istituzioni, quali l’Hermitage, la National Gallery e gli Uffizi.Una carrellata di opere riassunte nell’Allegoria della vanità umana, di Karel Dujardin (1663) che presenta, con l’intento di condannarla, questa eccessiva presunzione di piacere come una fanciulla dai tratti vagamente allucinati, ispirata dalle bolle di sapone, metafora del nulla.Un atteggiamento altrettanto negativo è nei quadri di Jan Brueghel il Giovane, pittore fiammingo anche lui legato alla Controriforma fortemente critica verso gli eccessi, mentre per una valutazione più positiva della “vanitas” bisogna attendere gli inizi del Novecento, quando essa diventa impulso al commercio nella cartellonistica pubblicitaria (famoso il manifesto Achille Banfi di Gino Boccasile del 1937).La mostra è visitabile presso la Galleria Nazionale dell’Umbria, Corso Pietro Vannucci 19, Perugia fino al 9 giugno 2019 http://www.gallerianazionaledellumbria.it
Visitare Salò
La città di Salò è meta turistica raffinata e viene frequentata da molti turisti sia italiani sia internazionali.Molte sono le attrazioni assolutamente da vedere.Il Duomo di Salò è il monumento più importante della città, praticamente una cattedrale in riva al lago. Esso è dedicato a S. Maria Annunziata e rappresenta l'opera di maggior pregio architettonico di Salò. Al suo interno custodisce tele del Romanino, del Moretto, di Zenon Veronese e di Paolo Veneziano.Antonio Vassilacchi detto l'Aliense, vi eseguì diversi affreschi. Progettato da Filippo delle Vacche in tardo stile gotico, non fu mai concluso. La facciata rimane ancora incompleta, anche se abbellita nel 1509 dal portale marmoreo del Tamagnino.Mercato del sabato mattina, luogo di incontro sociale che copre un’estesa area;Il Palazzo Del Potestà, situato sul lungolago di Salò, è il palazzo della Magnifica Patria, oggi sede del Comune, rappresenta un significativo capitolo nella storia della cittadina lacustre. Modificato a più riprese nel corso del tempo, il complesso che vediamo adesso è frutto di un parziale rifacimento del modello cinquecentesco del Sansovino tutt`ora in parte presente, avvenuto all`inizio del Novecento, a seguito di un grave terremoto. Consistenti interventi di restauro e migliorie vennero poi eseguite dopo il terremoto 2004, che ferì significativamente Salò e quindi anche il palazzo. La Magnifica Patria inizialmente comprendeva una confederazione di trentasei comuni della riviera bresciana del lago di Garda e della Val Sabbia nata per scopi politici e amministrativi nel XIV secolo, e a questo periodo si deve far risalire una prima edificazione del palazzo. Nel 1426 Salò passò sotto il dominio veneziano, e a quel punto viene concesso alla Patria il titolo di Magnifica e di figlia primogenita della Serenissima, titolo che poi perderà nel 1797. Tracce di questo avvenimento, che comportò anche l`avvento di un provveditore, sono riscontrabili nelle numerose effigi rappresentanti il leone di San Marco sparse per il palazzo e sotto la loggia, che venne annessa al primigenio complesso e servì anche a collegare il palazzo con la dimora del podestà. All`interno l`edificio vanta una vasta sala del consiglio, dotata di soffitto a cassettoni che presenta le raffigurazioni di dame e personaggi illustri e al centro l`affresco di Andrea Bertanza raffigurante San Carlo Borromeo, patrono di Salò, inginocchiato ai piedi di Cristo mentre un Nettuno cavalca le onde del lago reggendo pesci e limoni, simboli della Magnifica Patria. Sempre nella stessa sala è presente il busto di Gasparo da Salò, inventore del violino, opera dello scultore Angelo Zanelli. L`atrio conserva invece gli affreschi del Landi mentre all`interno della loggia trovano posto gli stemmi dei paesi un tempo facenti parte della Magnifica Patria e quattro lapidi del Regno d`Italia. (credits Arianna Florioli)Palazzo Fantoni, affacciato sull’omonima via con l’elegante facciata del XV secolo, da antica e blasonata dimora nobiliare è divenuto la “Casa della cultura” di Salò. Qui ha la propria sede l'Ateneo di Salò, la più antica istituzione culturale cittadina, fondata nel 1564 con il nome di Accademia degli Unanimi. A testimoniare l’antico e costante impegno dell’Ateneo sono il ricco archivio, custode di secoli di storia, e la biblioteca, dove si conservano incunaboli e cinquecentine. Anche il Museo Storico del Nastro Azzurro, dedicato ai riconoscimenti del valor militare, con cimeli dall'epoca napoleonica alla seconda guerra mondiale, ha trovato la propria sede presso Palazzo Fantoni, che ospita anche la Biblioteca Civica e l'Associazione Storico Archeologica della Riviera. Per finire, nel cortile si possono ammirare varie lapidi romane.Palazzo Martinengo ovvero Palazzo Pallavicino poi Martinengo, oggi Terzi, si trova sulla strada che, usciti da Salò, porta a Barbarano; simile ad una fortezza, la sua costruzione fu voluta dal Capitano della Repubblica di Venezia il marchese Sforza Pallavicino e risale al 1556. In questo edificio svolgeva i propri compiti la segreteria personale e politica di Benito Mussolini e risiedeva il quartier generale delle forze armate della RSI.Il nuovo museo MU.SA nasce nel 2015 nel complesso di Santa Giustina, che originariamente ospitava un collegio dei padri Somaschi fondato nel 1597; dopo la soppressione dell’insediamento religioso e fino agli anni ’70 del ‘900 gli edifici sono stati destinati a uso scolastico.Il percorso di visita inizia da una grande aula soppalcata, che rappresenta il fulcro di tutte le attività (espositive, culturali, collaterali) e assolve alle funzioni di accoglienza, orientamento, bookshop e distribuzione dei diversi percorsi.Il percorso museale, finalizzato al racconto della storia della città di Salò, procede nelle successive sale dei cinque piani, articolandosi in diverse sezioni espositive: dalla storia del sito si passa all’ Osservatorio meteo sismico, fondato proprio nell’ex convento somasco nel 1877 e tuttora operativo e la collezione di preparati anatomici di Giovan Battista Rini (1795-1856), episodio di grande rilevanza oltre i confini nazionali. L’età veneziana, quando la città ebbe il ruolo di capoluogo della Comunità di Riviera o Magnifica Patria è illustrata attraverso opere d’arte e documenti. Questa fu l’epoca anche di Gasparo da Salò, certamente la maggior gloria della città, cui è dedicato ampio spazio. Le raccolte illustrano attentamente le vicende salodiane seguite alla caduta di Venezia e al nuovo assetto napoleonico e quindi austriaco, il coinvolgimento nelle lotte risorgimentali, fino all’Unità e alle trasformazioni di inizio Novecento con la presenza di Gabriele d’Annunzio.Un’importante sezione del MuSa è dedicata ai 600 giorni della Repubblica Sociale Italiana, inscindibilmente legata a Salò nella memoria collettiva.Nel MuSa trova spazio anche l’esposizione di un’importante realtà salodiana, la Civica Raccolta del Disegno, nata nel 1983 per documentare la produzione grafica italiana del Secondo Dopoguerra, che nell’arco di tre decenni ha costituito un fondo di oltre 600 disegni, con fogli di grandissima qualità e rilevanza.Al piano terra dell’edificio (quota strada) è inoltre visitabile la collocazione del Museo del Nastro Azzurro, allora a Palazzo Coen, che viene accorpato al MuSa ma mantiene la propria identità ed un ingresso autonomo.Per questa stagione è allestita la mostra “Contemplazioni: i visionari”, curata dal professor Vittorio Sgarbi e che resterà aperta dal 10 aprile all’8 dicembre.
Sacra Famiglia Medici
SACRA FAMIGLIA MEDICI, Andrea del Sarto, olio su tavola, 140x104 cm, Firenze, Galleria Palatina di Palazzo Pitti.Questo dipinto fu realizzato per Ottaviano de’ Medici e, secondo Vasari, a questi consegnato quando era imprigionato a Palazzo Vecchio dai repubblicani nel 1529.Vasari racconta che conservò il dipinto per Ottaviano e che glielo fece recapitare dopo la restaurazione medicea del 12 agosto 1530.Passata alla vedova di Ottaviano, Francesca Salviati, nel 1568 (Vasari 1550, ed. 1991 Vol. II p. 724), l’opera è sempre rimasta nelle collezioni medicee, citata negli inventari del 1589 (Tribuna), 1637 e 1687 (Pitti), 1723.Sono note numerose copie su tavola o su tela, che testimoniano l’indiscussa fortuna della composizione, in modo particolare tra gli artisti fiorentini che ne apprezzavano i rimandi ai grandi maestri Michelangelo e Raffaello.Oggi è possibile ammirarla alla Galleria Palatina di Palazzo Pitti, e precisamente, nella sala di Apollo, dove si trova un’altra composizione eccezionale del maestro Andrea del Sarto: la Pietà di Luco.La Pietà di Luco, eseguita su tavola, fu acquistata dalle monache del monastero di Luco dal granduca Pietro Leopoldo nel 1782, ed entrò al Pitti nel 1795, proveniente dagli Uffizi, a cui fu data in cambio la Madonna delle Arpie sempre di Andrea del Sarto.Per sfuggire alla peste che dilagava in città, Andrea si trasferì, grazie all'aiuto dell'amico Antonio Brancacci, con la famiglia, a Luco di Mugello, presso le monache camaldolesi. Ricevette così la commissione dell'opera dalla Badessa del monastero, Caterina di Tedaldo della Casa (ritratta nel dipinto come Santa Caterina d'Alessandria) per porla sull'altar maggiore della chiesa. L'opera iniziata nell'autunno 1523 dovette essere finita nell'ottobre del 1524 quando il suo autore fu pagato 80 fiorini. Fu probabilmente collocata al suo posto solo nel 1527 data riportata sul retro dell'altare (Padovani, 1986). In loco esiste una copia realizzata da Santo Pacini nel 1783, dal momento Pietro Leopoldo acquistò la tavola per 2400 scudi. Nel 1795 l'opera fu trasferita a Pitti dietro suggerimento del direttore degli Uffizi, il Puccini, in cambio della Madonna delle Arpie. Da allora è rimasta in tale collocazione, tranne che per il periodo napoleonico (1799-1815).
Il Vedutismo
Il vedutismo è un genere pittorico che ritrae per lo più i manufatti umani, solidi geometrici come le case, che formano strade, piazze e città.I pittori di vedute furono spesso gli stessi che dipinsero anche i paesaggi agresti e la distinzione fra paesisti e vedutisti è basata solo sulle diverse specializzazioni, sulla differenza del tema trattato.La grande produzione di vedute, intesa a documentare realtà urbanistiche a fini pratici, ci ha tramandato una documentazione preziosa, importante per la storia degli edifici e dell’urbanistica. E’ un peccato che non esista altrettanto per interi e lunghissimi periodi storici.Il 1580 è assunto come data convenzionale della storia del Vedutismo perché intorno a quell’anno si manifestò per la prima volta in modo deciso e programmatico la volontà di rappresentare in pittura i vari luoghi di una città; ciò avveniva per celebrare l’importante percorso della processione che ebbe luogo l’ 11 giugno 1580 per il trasporto del corpo di San Gregorio Nazianzeno da Santa Maria in Campo Marzio a Roma alla Basilica di San Pietro: nelle Logge di Gregorio XIII (1572-1585) sono rappresentati ad affresco i luoghi percorsi dai fedeli.Nonostante ciò, è usanza comune, indicare come iniziatore del Vedutismo tradizionale Gaspar Van Wittel (Amersfort 1653-Roma 1736).Scrive Lione Pascoli che fu “molto signorile per aver rappresentato col pennello paesi e vedute così esatte e finite”; sottolinea cioè come una novità la “intelligenza della prospettiva, dell’architettura e dell’ottica colle cui regole sempre operava”.Operando sempre in Italia senza tradire la propria formazione e il proprio temperamento, Van Wittel ebbe la fortuna di incontrare un grande successo al punto che la sua pittura ebbe vastissimo seguito.Egli divenne il vero iniziatore del vedutismo quale si diffuse in pittura non solo in Italia, ma in tutta Europa.Le ragioni di questo successo sono dovute la momento storico in cui cominciò ad operare, quando il turismo crescente sollecitava la produzione di vedute esatte.Il fenomeno del Vedutismo si estese rapidamente a pittori di varia nazionalità, non solo italiani, ma olandesi, francesi, inglesi, tedeschi e divenne un fenomeno con espansione internazionale. Le città che i pittori presero a modello non furono soltanto le eccezionali regine dell’arte, Roma, Venezia e Napoli, ma tutte le principali città europee, da Londra a Varsavia, a Dresda, a Monaco, e ciò per la committenza delle varie corti.Le persone interessate all’acquisto di vedute erano i sempre più numerosi viaggiatori. Le corti europee impiegarono vedutisti italiani quali Canaletto e Bellotto. Antonio Joli e Canaletto lavorarono in Inghilterra, Bellotto a Dresda e in Polonia.Dopo Roma, Venezia fu la città preferita dai vedutisti come modella, certo per la sua bellezza unica e ineguagliabile. Fina dai tempi del Grand Tour i quadri dei vedutisti veneziani piacquero perché piaceva la città unica che ritraevano e che tutti ammiravano; fu la stessa richiesta di vedute di Venezia a promuovere il genere nella scuola pittorica locale.
La Città di Padova
Padova Antiquaria, XXXV Mostra Mercato d’Antiquariato, si terrà dal 23 al 31 Marzo alla Fiera di Padova, tutte le informazioni si possono trovare sul sito www.antiquariapadova.comUna buonissima idea potrebbe essere, cogliere l’occasione per prendersi del tempo e visitare la città di Padova, una tra le più affascinanti città italiane dal punto di vista artistico.Viene chiamata la “Città dei tre senza” per questi tre motivi:“Santo senza nome”, perché il patrono Sant’ Antonio è semplicemente “il Santo” senza bisogno di ulteriori specificazioni e la basilica è appunto detta “Del Santo”; “caffè senza porte” è lo storico Caffè Pedrocchi, autentico monumento cittadino, un tempo aperto giorno e notte; “prato senza erba” è il Prato della Valle, la piazza più grande di Padova e una delle più estese d’Europa, che solo nell’isola centrale presenta delle piante.La Basilica del Santo è un maestoso e complesso edificio religioso iniziato nel 1232, un anno dopo la morte di S.Antonio.L'aspetto esterno della Basilica è un misto di lombardo, toscano e bizantino; orientaleggianti sono le 8 cupole e i due campanili.L'interno custodisce il corpo del Santo in un sarcofago (arca) posto nella splendida Cappella del Santo, opera di vari artisti tra cui Tullio Lombardo, Andrea Briosco e Gianmaria Falconetto.La Basilica conserva insigni opere d'arte antiche e contemporanee tra cui la Cappella del Beato Luca Belludi interamente affrescata da Giusto de' Menabuoi (1382), la Cappella di S.Giacomo e S.Felice con bellissimo ciclo pittorico di Altichieri da Zevio (1374-78), l'altare maggiore con le sculture di Donatello tra cui spicca il Crocifisso (suo è anche il monumento equestre al "Gattamelata" sul piazzale della Basilica) e poi ancora opere di scuola giottesca, di Sansovino, Briosco, Sanmicheli, Parodi, Achille Casanova, Ubaldo Oppi, Pietro Annigoni.Bellissimi sono pure i chiostri del convento, soprattutto il chiostro della magnolia ricco di ricordi marmorei.Altra tappa fondamentale è la Cappella degli Scrovegni, visibile a piccoli gruppi su prenotazione.Accoglie un ciclo di affreschi realizzato da Giotto tra il 1303 e il 1305. Giotto è ormai un artista affermato: ha dipinto la Basilica Superiore di S. Francesco ad Assisi e ha realizzato importanti affreschi nella Basilica di S. Giovanni in Laterano a Roma. Il banchiere padovano Enrico Scrovegni decide di erigere una cappella per espiare i peccati commessi da suo padre, così colpevole del peccato di usura da meritarsi un posto all’inferno nella Divina Commedia di Dante Alighieri. La Cappella ha una pianta rettangolare e un’unica navata.Gli affreschi di Giotto, disposti su tre livelli, rappresentano un vero e proprio racconto per immagini organizzato in scene: dalla storia dei genitori della Madonna, Anna e Gioacchino, fino alla morte e alla resurrezione di Cristo. Il Giudizio Universale dipinto all’interno della facciata chiude il racconto. In basso, sullo zoccolo, Giotto rappresenta le allegorie dei Vizi e delle Virtù. In alto, sulla volta della cappella, dipinge un azzurro cielo stellato.Prato della Valle, come dicevamo il “Prato senza erba” è una delle più estese piazze d'Europa, con una superficie complessiva di 88.620 metri quadrati. Al centro della piazza si trova l’isola Memmia, di forma ellittica e circondata da una canaletta adornata da un doppio anello di statue.Nell’antichità la zona, che ospitava le esercitazioni dei militari, era conosciuta come Campo di Marte. In seguito prese il nome di Valle del Mercato, in quanto luogo privilegiato per lo svolgimento di fiere stagionali, e ancora successivamente di Prato di Santa Giustina, trovandosi nelle vicinanze dell'omonima Abbazia di Santa Giustina.Piazza delle Erbe, altra meta gradita dai visitatori di Padova. Anticamente veniva chiamata delle Biade e poi del Vino, per la tipologia di mercato che vi si svolgeva. Ancora oggi, tutte le mattine dal lunedì al venerdì e il sabato per l’intera giornata, si tiene uno dei mercati più pittoreschi della città: la piazza si riempie di circa 70 bancarelle di frutta e verdura, mentre, attorno alla fontana, si posizionano quelle di fiori. Quando il coloratissimo mercato viene smontato, la bancarella viene chiusa e, come una specie di carriola, viene portata nei vari magazzini attorno alle piazze, prevalentemente nel Ghetto antico, che con piazza delle Erbe confina. La sera, la piazza si riempie di studenti universitari e di padovani per l’aperitivo, lo spritz, accompagnato da gustosi tramezzini e dai tradizionali spuncioni (oggi definiti finger food). Attraverso il grande arco nei pressi della fontana – il passaggio viene denominato Vòlto della Corda, perché qui bugiardi, imbroglioni, debitori insolventi venivano colpiti sulla schiena con una corda – si accede alla Piazza della Frutta o dei Frutti, un tempo chiamata del Peronio, perché vi si vendevano zoccoli e stivaletti, in latino perones. Le bancarelle proponevano pesce e selvaggina, uova e pollame, porchetta, verdure e uccelli pregiati, come i falconi. Ancora oggi si svolge il mercato di frutta e verdura, spezie, cereali vari.Tra le due piazze fin qui descritte, si erge il Palazzo della Ragione: importante simbolo cittadino. Chiamato popolarmente il Salone, rappresenta uno dei più grandi spazi coperti dell’architettura italiana.